Fa impressione pensare che Fantozzi "compia" cinquant'anni. Sembra impossibile, perchè Fantozzi in tutti questi anni è cresciuto con noi, come un vecchio amico (o meglio, come un collega d'ufficio... visto l'argomento), facendoci credere che ci fosse sempre stato. Una di quelle figure familiari, che vorremmo dire non invecchiano mai e che invece, dopo cinquant'anni (e dopo una fresca visione al cinema, proprio ieri sera) ci fanno prendere inesorabilmente coscienza del tempo che passa.
Saranno i giovani a salvare il cinema, se questo si salverà del coronavirus. Ne sono assolutamente convinto. Saranno la passione e l'amore per l'arte a tenere in vita quella "fabbrica di sogni" che ci accompagna da più di un secolo. Il cinema ti dà emozioni forti, e chi meglio dei giovani è disposto a lasciarsi emozionare? I giovani hanno entusiasmo, vitalità, ardore, e soprattutto sanno (ancora) sognare. Mi ricordo ancora di quella volta a Venezia...
E' proprio vero che la prima volta non si scorda mai! E in effetti devo dire che il mio "battesimo" alla Mostra del Cinema di Venezia fu davvero indimenticabile... ma non nel senso che credete voi! Se avrete la pazienza di leggere queste righe capirete perchè. Andiamo con ordine, però: correva l'anno 2002, e come regalo per i miei primi vent'anni (eh sì, un tempo sono stato giovane anch'io) mi ero concesso una "toccata e fuga" al Lido, giusto per capire cosa volesse dire essere lì, a un festival importante, circondato da star e da semplici appassionati come me, tutti insieme per condividere un'emozione...
Dite un po', fino a che punto avete osato spingervi in vita vostra pur di vedere un film non proprio sotto casa? Fino a che punto arriva la vostra passione per la sala cinematografica, tanto da farvi muovere anche in situazioni "impervie" come questa che vado a raccontare?
A Siena esiste un cinema che è stato ricavato dentro la navata di una Chiesa. Fino a pochi anni fa, prima di un recente restyling, si poteva ancora vedere l'altare posto proprio sotto il piccolo schermo. La sala adesso si chiama Alessandro VII, ma per me resterà sempre "il Cineforum", ovvero il vecchio nome storico di questa saletta piccina piccina, confortevole, non proprio iper-tecnologica (ricordo che una volta insieme al pubblico entrò dentro anche un piccione...) ma squisitamente familiare: mi è capitato diverse volte di arrivare alla proiezione un po' in anticipo ed entrare in sala insieme al gestore che ti apre la porticina con le chiavi di casa, accende le luci, ti fa il biglietto e ti offre perfino le caramelle: altri tempi, altro cinema.
Si dice che delle cose importanti ci accorgiamo solo quando ci mancano... ecco, il cinema ai tempi del Coronavirus sembra dirci proprio questo: quanto manca ai veri cinefili la sala cinematografica? A me, personalmente, tantissimo. E' vero: abbiamo Netflix e le altre piattaforme streaming, abbiamo la pay-tv, abbiamo centinaia di film nel nostro hard-disk, abbiamo quintali di dvd e blue-ray in casa, eppure il piacere di andare al cinema, la visione collettiva, il piacere di godersi due ore in santa pace disconnessi dal mondo, per quanto mi riguarda è insostituibile. Per questo motivo, in queste settimane di clausura forzata, cercherò ogni tanto di sfogare la nostalgia abbandonandomi ai dolci ricordi di sale vecchie e nuove che, per un motivo o per un altro, mi sono rimaste nel cuore. E per cominciare in bellezza, comincio perlappunto con la più bella sala che abbia mai visto nei miei (ormai troppi) anni di assidua frequentazione...
di Hugh Hudson (GB, 1981)
con Ian Charleson, Ben Cross, Ian Holm, Nigel Havers, John Gielgud, Lindsay Anderson
durata: 123 minuti
Lo conosciamo da trent'anni eppure, inesorabilmente, ogni volta che sentiamo suonare il tema di Chariots of Firela mente ci riporta alle immagini di "quei giovani che vissero con la speranza nei cuori e le ali ai piedi"... la partitura musicale di Vangelis è diventata in breve tempo la colonna sonora più famosa della storia del cinema, e addirittura c'è chi ancora oggi neanche immagina che sia associata a un film, si può dire che ormai vive di vita propria. Eppure Momenti di Gloria è una pellicola che, a suo modo, un posto al sole lo merita, soprattutto per il messaggio che porta: non tanto per lo 'spirito olimpico' (che, come vedremo dopo, in realtà è tutt'altro che esaltato), quanto perchè cerca di trasmettere allo spettatore il concetto che nella vita vale sempre la pena di battersi per un obiettivo, qualcosa per cui varrà la pena essere ricordati, piccola o grande che sia.
(id.) di Federico Micali (Italia, 2015)
con Francesco Turbanti, Robin Mugnaini, Matilda Lutz, Claudio Bigagli, Paolo Hendel, Anna Meacci
durata: 88 minuti ★★★☆☆
Ci sono film che si fanno amare più per l'argomento che per il film stesso, e che non vorresti mai smettere di vedere per le emozioni e la nostalgia che ti suscitano... anche se poi, a dire il vero (o forse proprio per quello) tali emozioni non le hai mai davvero vissute ma solo sentite dire. D'altronde, come diceva qualcuno più bravo di me, "quando la leggenda incontra la realtà, vince sempre la leggenda..."
Pisa, 1970. Cronaca di una 'bischerata' memorabile. Due liceali, pluriripetenti e perdigiorno, inclini più alla musica che ai libri, aspettano un'audizione nientepopodimeno che dal 'cantautore resistente' Pino Masi, autore de 'La ballata del Pinelli' (sic!) e musicista 'di culto' per la sinistra dell'epoca. Ma il Masi non ha tempo per starli a sentire: nell'Italia del dopo Piazza Fontana si susseguono le voci di un golpe militare, sull'onda di quello accaduto in Grecia pochi mesi prima. Non c'è un minuto da perdere: 'precettati' i due studentelli (non troppo convinti, in verità), nonchè la macchina di uno di loro, il terzetto si dirige verso la Jugoslavia del 'compagno' Tito, nella speranza di riuscire a varcare il confine prima del colpo di stato...
(id.)
di Ettore Scola (Italia, 2013)
con Tommaso Lazotti, Giacomo Lazotti, Vittorio Viviani, Emiliano De Martino, Sergio Rubini, Andrea Salerno, Pietro Scola
durata: 93 min. ★★★★☆
"Un film emozionante". Parola di Giorgio Napolitano, presente in sala a Venezia come cinefilo-doc e accolto con una standing ovation dal pubblico della Sala Grande. E anche in fatto di cinema il Presidente si è dimostrato tutt'altro che uno sprovveduto: in effetti la sua battuta è la migliore delle recensioni per questo piccolo film, voluto fortemente da una coppia di produttori coraggiosi (Felice Laudadio e Franco Cicutto) che sentivano la necessità di celebrare nel modo 'giusto' il ventesimo anniversario della morte di Federico Fellini, e che ha commosso fino alle lacrime la platea veneziana.
(id.)
di Paul Verhoeven (USA, 1997)
con Casper Van Dien, Denise Richards, Dina Meyer, Michael Ironside, Jake Busey, Neil Patrick Harris
A scanso di equivoci preferisco dirvelo subito: nel pieno possesso delle mie facoltà mentali sono pronto ad affermare con assoluta certezza che se un giorno mi chiedessero di dover scegliere tra i venti, dieci o cinque film di fantascienza da portare sulla famosa isola deserta, un posticino per Starship Troopers lo troverei sempre, a prescindere... E non avete idea di quante animate discussioni (è un eufemismo per non chiamarle 'litigate furibonde') abbia dovuto sostenere in passato per difendere a spada tratta questo film, spesso da solo contro legioni di cinefili inviperiti che mi accusavano di blasfemìa... (sic!) Sì, lo so, questa non è certo fantscienza 'filosofica', nè alta e nè nobile
(id.)
di John G. Avildsen (USA, 1976)
con Sylvester Stallone, Talia Shire, Burt Young, Carl Weathers, Burgess Meredith
Lo avete visto tutti almeno una volta nella vita, e buona parte di voi ne conoscono a memoria le battute e le inquadrature. Rocky è uno dei film a cui sono più affezionato, e non solo per l'innegabile simpatia che mi ha sempre trasmesso 'a pelle' uno come Sly Stallone. Rocky mi piace perchè racconta la storia di un anti-eroe per eccellenza, una persona qualunque e piena di problemi che, come tanti di noi, aspetta un'occasione per dare una svolta alla sua vita. Sarebbe sbagliato liquidare semplicisticamente Rocky come l'ennesima parabola sul Sogno Americano: non dimentichiamoci infatti che Rocky racconta pur sempre la storia di una sconfitta, per quanto onorevole sia.
(id.)
di Dino Risi (Italia, 1962)
con Vittorio Gassman, Jean Louis Trintignant, Catherine Spaak
"Non bevi, non fumi, manco guidi la macchina, ma che te godi della vita tu?"
Erano gli anni del boom, ma in fondo non eravamo troppo diversi da adesso... l'italiano era sempre l'italiano: cialtrone, menefreghista, irresponsabile, impietosamente superficiale e con pochissimi scrupoli. Uno come Bruno Cortona, a bordo della sua Aurelia 'supercompressa', potremmo tranquillamente ritrovarcelo tra capo e collo anche al giorno d'oggi: è il simbolo di un paese con pochi valori e che cerca di mascherare dietro un'apparenza spavalda una tremenda solitudine di fondo (il quarantenne separato e mai rassegnato che cerca un passeggero a caso per trascorrere il Ferragosto).
(id.)
di Kathryn Bigelow (USA, 1995)
con Ralph Fiennes, Angela Bassett, Juliette Lewis, Tom Sizemore, Vincent d'Onofrio
"Guardati intorno! Il mondo è tutto un casino. Che t’importa di morire? Tanto il mondo finirà tra 10 minuti"
Me lo ricordo come fosse ora: la sala piena, le luci che si abbassano, pochi minuti e la platea che viene letteralmente stordita da un ritmo impazzito, frastornante, debordante... un fiume di colori, suoni, azione, straordinariamente kitsch e meravigliosamente incontenibile. Qualcuno si mette le dita nelle orecchie, qualcuno si lamenta perchè 'il volume è troppo alto', il resto (la maggioranza) vengono travolti dalle immagini e dalla forza di questa fantascienza-contemporanea (non è un paradosso) firmata Kathryn Bigelow.
(Field of dreams)
di Phil Alden Robinson (USA, 1989)
con Kevin Costner, Amy Madigan, Ray Liotta, James Earl Jones, Burt Lancaster
Ray Kinsella, contadino dello Iowa, distrugge la sua intera piantagione di mais per costruire un campo da baseball. Tutti lo prendono per matto ma lui va avanti per la sua strada, spinto da una voce perentoria che lui solo riesce a sentire ("se lo costruisci, lui tornerà"). Alla fine su quel campo si materializzeranno i 'fantasmi' (ma lo saranno poi davvero?) di grandi giocatori del passato in cerca di rivincita e, soprattutto, vi ritroverà suo padre, morto prematuramente e col quale aveva sempre avuto un rapporto difficile. Tutti insieme imbracceranno mazze e guantoni per giocare una partita riconciliatrice, alla quale potranno assistere solo coloro che credono davvero nei propri sogni...
Agosto, cinema mio non ti conosco... pochissimi film in uscita, sale semivuote, spiagge affollate. Niente di nuovo sotto il sole (cocente). E allora, per chi come noi se ne resta in città, tantovale recuperare qualche pellicola 'evergreen', quei film che non ti stanchi mai di rivedere nemmeno al loro milionesimo passaggio televisivo, titoli che sono ormai dei 'cult' senza tempo, indipendentemente dal loro valore artistico. E che, magari mentre siamo spaparanzati in poltrona, al fresco, aiutano a trascorrere meglio queste noiose serate estive. Buona visione!
(Chariots of fire)
di Hugh Hudson (GB, 1981)
con Ian Charleson, Ben Cross, Ian Holm, Nigel Havers, John Gielgud, Lindsay Anderson
VOTO: ****
Lo abbiamo sentito, immancabile, anche l'altra sera durante la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi londinesi. Lo conosciamo da trent'anni eppure, inesorabilmente, ogni volta che sentiamo suonare il tema di Chariots of Fire la mente ci riporta alle immagini di 'quei giovani che vissero con la speranza nei cuori e le ali ai piedi'... la partitura musicale di Vangelis è diventata la colonna sonora più famosa della storia del cinema, e addirittura c'è chi ancora oggi neanche immagina che sia associata a un film, si può dire che ormai vive di vita propria. Eppure Momenti di Gloria è una pellicola che, a suo modo, un posto al sole lo merita, soprattutto per il messaggio che porta: non tanto per lo 'spirito olimpico' (che, come vedremo dopo, in realtà è tutt'altro che esaltato), quanto perchè cerca di trasmettere allo spettatore il concetto che nella vita vale sempre la pena di battersi per un obiettivo, qualcosa per cui varrà la pena essere ricordati, piccola o grande che sia.
Ma andiamo con ordine: nel 1980 la British Film Commission incarica l'allora regista pubblicitario Hugh Hudson di realizzare un film che rievochi lo spirito dei Giochi Olimpici, appena svoltisi nello stesso anno a Mosca e boicottati dei paesi occidentali per motivi politici (l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'URSS). Hudson decide di adattare sul grande schermo una sceneggiatura scritta dal connazionale Colin Welland, che racconta la storia di due atleti britannici del passato, Harold Abrahams ed Eric Liddell, che si preparano per affrontare i Giochi di Parigi del 1924.
I due hanno percorsi di vita molto diversi, ma corrono per lo stesso obiettivo: vincere. Ma se per Liddell, fervente cattolico in procinto di partire missionario per la Cina, la vittoria nelle gare di corsa è un modo per onorare Dio e ringraziarlo di averlo fatto nascere 'veloce come il vento', per l'ebreoAbrahams vincere l'oro nei 100 metri significherebbe rifarsi di tutte le discriminazioni e le angherie subite in gioventù a causa della sua fede, peraltro ostentata con orgoglio. I due sono i grandi favoriti (e rivali) per la distanza più breve, ma a pochi giorni dalla partenza per Parigi, Liddell viene a sapere che la finale olimpica è stata spostata alla domenica: per lui è impossibile gareggiare nel giorno dedicato al Signore, ed è irremovibile nella sua decisione, lasciando così la strada spianata a Abrahams, che vincerà a mani basse. Liddell si rifarà pochi giorni dopo vincendo l'oro nei 400 metri, cui parteciperà grazie al 'sacrificio' di un compagno di squadra.
In realtà le cose non andarono esattamente così, la vicenda di Liddell è stata molto romanzata dalla sceneggiatura di Welland: il calendario delle gare era infatti noto da mesi e non ci fu alcun conflitto interiore nell'atleta, che si iscrisse solo nella distanza più lunga. Ma questo non avrebbe ovviamente giovato allo stile della pellicola, volutamente enfatico, altisonante, magliloquente, in linea con gli obiettivi 'alti e nobili' del committente (il Ministero della Cultura britannico). Molti detrattori hanno criticato il film proprio per questa 'altezzosità' tipicamente 'inglese', stigmatizzando l'uso ripetuto e a loro dire abusato dei ralenti e della profondità di campo e, appunto, per aver distorto eccessivamente il racconto degli eventi a fini esclusivamente commerciali.
Eppure... eppure, per quanto appropriate possano essere queste critiche, Momenti di Gloria è uno dei film più affascinanti e evocativi che il sottoscritto ricordi. E' un film trascinante, emozionante, coinvolgente, sapientemente preso per mano dalle musiche di Vangelis e ammirevole per l'accuratezza dei dettagli, costumi e scenografie su tutto (la nostra Milena Canonero fu premiata con l'Oscar, oltre a quelli per miglior film, sceneggiatura e musica). E' uno di quei film che quando passano in televisione non riesci a smettere di guardare, come altrettanto non riesci a non rimetterlo nel lettore dvd in occasione di ogni edizione dei Giochi Olimpici, come sta accadendo ora. Addirittura, è notizia di questi giorni, in Gran Bretagna è stato rieditato al cinema con un successo clamoroso.
Girato con mano sapiente, estremamente curato nei particolari, il film di Hudson contiene sequenze che sono entrate nella memoria: i titoli di testa con gli atleti che corrono sulla spiaggia, la sfida nel cortile del college scandita dai rintocchi dell'orologio, la finale interminabile dei cento metri, interrotta mille volte dal montaggio, a testimoniare la tensione e la sofferenza dell'atleta, la gioia dell'allenatore di Abrahams che apprende la notizia della vittoria ascoltando le note dell'inno nazionale...
Ma attenzione. Momenti di Gloria è tutt'altro che (solo) un film patinato e omaggiante lo sport. Leggendo bene tra le righe si nota una netta critica sociale verso la realtà culturale e benpensante dell'epoca, esplicitata soprattutto nel personaggio di Abrahams, oggetto di pregiudizi e velata insofferenza per la sua fede ebraica (si veda il comportamento del rettore dell'università). Insomma, anche nella civilissima Inghilterra degli anni '20 le disparità etniche e sociali erano all'ordine del giorno, oggi come allora, e anche lo spirito dei Giochi era molto meno 'olimpico' di quello che si crede: coloro che infatti potevano permettersi di andare alle Olimpiadi erano gli atleti più ricchi, che potevano pagarsi le rette dei college più famosi e perfino allenarsi all'interno delle proprie tenute, spesso veri e propri schiaffi alla miseria (emblematica la scena di Lord Lindsay che sistema su ogni ostacolo una coppa di champagne). E, ogni caso, nessuno si sognava di andare lì e partecipare, arrivando perfino a ingaggiare allenatori professionisti pur di conquistare la vittoria, a ogni costo.
Abile nel conciliare momenti epici (le gare) con aspetti intimi e privati degli atleti, Momenti di Gloria è ancora a tutt'oggi il più bel film sportivo mai realizzato, unico nel suo genere a riuscire a trasmettere allo spettatore le emozioni, le sofferenze e più che altro le rinunce di chi dedica tutto se stesso al coronamento di un sogno. Il titolo originale è tratto da una poesia di William Blake ma, per una volta, lasciatemelo dire, quello italiano è infinitamente più bello.
Bring me my bow of burning gold Bring me my arrows of desire! Bring me my spear! Oh, clouds unfold! Bring me my chariot of fire. (W. Blake)
(Greed)
di Erich Von Stroheim (USA, 1924)
con Zasu Pitts, Gibson Gowland, Jean Hersholt
VOTO: *****
"Ho diretto un solo film intero nella mia vita e me lo hanno mutilato e smembrato... a quei poveri resti è stato dato il nome di Greed..."
In realtà Erich Von Stroheim fu regista di svariati capolavori del cinema muto, ma considerava Greed (in italiano Rapacità) il film della sua vita, quello per il quale desiderava essere ricordato. E suo malgrado, in un certo senso fu davvero così: oggi, per tutti i cinefili, il nome Von Stroheim è sinonimo di gigantismo, megalomania, delirio di onnipotenza di un cineasta che faceva della perfezione maniacale e della magniloquenza della messinscena il suo marchio di fabbrica. Greed è considerato ancora oggi il film più costoso della storia del cinema: quasi mezzo milione di dollari spesi (una cifra folle per l'epoca) per una pellicola che, nella versione originale, arrivava a sfiorare le otto ore di durata. Troppe per un film muto, e per la Hollywood dell'epoca.
Per un beffardo destino, si può dire che Greed fu vittima proprio di quell'avidità che era il tema principale del film: era impensabile, infatti, che la MGM acconsentisse a distribuire nelle sale una pellicola muta di otto ore... sarebbe stato commercialmente un suicidio, e lo stesso Von Stroheim se ne rese conto, offrendosi spontaneamente di ridurla a una durata secondo lui più accettabile di quattro ore, da proiettarsi in due parti. Ma per la produzione erano ancora troppe e così, nonostante le veementi proteste del suo regista, il film fu scorciato ancora fino ad arrivare alla versione 'ufficiale' di appena 108 minuti, sforbiciando centinaia di scene ed eliminando interi personaggi. Fu così che il risultato ai botteghini fu un flop clamoroso, che fece di Greed il film 'maledetto' per antonomasia della storia del cinema...
Le mani scheletrite che accarezzano il denaro, emblema del film
Eppure, nonostante quello che vediamo oggi sia poco più che lo scheletro di un'opera monumentale e totalizzante, Greed lascia ancora stupefatti per la sua attualità, il suo magnetismo e la sua forza disturbante, oltre che per le tecniche registiche e recitative, che ne fanno ancora oggi oggetto di studio nelle scuole di cinema di tutto il mondo. Ma quello che interessa a noi è l'incredibile potenza evocativa di un film che, per tematica e impatto sociale, sembra davvero girato ai giorni nostri: temi come la cupidigia, l'avidità, l'avarizia, la nefasta piega di una società schiava del denaro e fondata totalmente su di esso, sono tristemente all'ordine del giorno, e debbono necessariamente farci riflettere.
Il banchetto nuziale, simbolo di opulenza e bestialità
La trama, come in tutti i grandi film, è semplice e universale: tratta dal romanzo McTeague di Frank Norris, è la storia di un uomo semplice e rude che s'invaghisce, ricambiato, della ragazza del suo migliore amico. Il matrimonio sembra andare a gonfie vele fino a quando la moglie, inaspettatamente, vince una somma spropositata alla lotteria del posto. Da quel momento il denaro cambierà radicalmente il carattere della donna, che diventerà ossessionata dalla paura di perdere il gruzzolo, riducendosi a vivere di stenti pur di non intaccare la somma. Ciò scatenerà ovviamente l'ira del marito, che per appropriarsi dei soldi finirà per strangolarla. Inseguito da tutti, l'uomo tenta una fuga disperata nel deserto, ma sarà raggiunto proprio dall'ex-amico, che non gli ha mai perdonato il fatto di avergli portato via la donna che adesso vale una fortuna. Il finale nella Valle della Morte, con i due contendenti che si uccidono a vicenda sotto la terribile canicola, con le monete d'oro ormai inutili sparse sulla sabbia, è forse il più famoso della storia del cinema, impossibile da dimenticare...
La scena finale, girata nella Death Valley
Greed si meritò la fama di film-maledetto anche per il modo in cui venne realizzato: pare infatti che Von Stroheim pretendesse dai suoi attori un realismo esasperato, arrivando perfino a fargli patire la fame e la sete, e obbigandoli veramente a camminare per giorni e giorni nel deserto senza lavarsi e senza coricarsi...
Ma aldilà di questi aspetti più o meno 'leggendari', ciò che rende la pellicola un capolavoro immortale è l'assoluta tragicità di fondo, esplicitata dalla totale negatività di tutti i personaggi, che tirano fuori il peggio di sè quando si tratta di venire a patti col Dio Denaro, oggi come allora unica causa di infelicità e conflitto. Anche per questo il film non brillò ai botteghini: l'America opulenta e bigotta dell'epoca non voleva costringersi a rispecchiarsi in una società che non riteneva possibile. Ma proprio nello stesso momento la Crisi si faceva già sentire nella vecchia Europa: erano i tempi della Repubblica della Weimar e dei prodromi del Nazismo, e il cinema (che come sempre riflette la Storia) dava alla luce film come Caligari, Nosferatu e Metropolis, indice evidente di un malcontento di fondo che di lì a poco avrebbe generato 'mostri' ben più terribili. E anche in questo Von Stroheim non si sbagliava.
Andai a vederlo al cinema appena uscito, giusto vent'anni fa... ma confesso che non ricordo molto di quella 'prima volta', anche perchè ne vidi solo metà. Perchè per l'altra metà tenni gli occhi chiusi e le orecchie tappate. Ebbene sì, avevo diciannove anni e me la facevo sotto dalla paura. L'unico motivo per cui mi trovavo in sala era la presenza di Jodie Foster, già all'epoca la mia attrice preferita. Solo dopo (molte) altre visioni mi resi conto che quel film che tanto mi aveva fatto spaventare poteva considerarsi, senza esagerare, un film 'epocale'. Un capolavoro assoluto. Di più, un'autentica esperienza visiva e (soprattutto) psicologica, di quelle che 'segnano' una persona e, inequivocabilmente, le aprono gli occhi. Anche a uno sbruffoncello appena maggiorenne...
Sono passati vent'anni ma la carica emotiva di questa incredibile, inimmaginabile pellicola è pressochè intatta. E' vero che ormai ci siamo assuefatti a tutto, che viviamo in una società tanto malata esattamente quanto questo film ci aveva predetto, che certi avvenimenti che riempiono pagine intere di giornali e televisioni ci dicono che ci sono tanti Hannibal Lecter su questo mondo. Ma questo film rimane ineguagliabile, proprio per la forza malvagia che sprigiona e per la soggettiva che 'costringe' lo spettatore a mettersi sullo stesso piano dell'assassino, ad osservare senza essere visto l'ansimare nel buio della propria preda. Il silenzio degli innocenti è un trattato sulla pazzia, una tesi di laurea sull'orrore e la bestialità umana, girato sotto forma di thriller psicologico che, attraverso un uso ossessivo e smodato dei primi piani e della profondità di campo, va oltre i limiti della sopportazione e ci stordisce con sequenze di insostenibile tensione, corredate magistralmente dalla partitura musicaledi Howard Shore.
Paradossalmente, ma non troppo, pensandoci bene possiamo affermare che Il silenzio degli innocenti ricalca perfettamente lo spirito e l'idea-base di questo blog, quasi ne fosse complementare: come Solaris vuole convincerci che non serve fuggire altrove per disfarsi delle proprie fobie, il film di Demme ci dice che l'orrore è soprattutto all'interno di noi stessi, nell'intimità dei nostri pensieri, e che tutti noi, in primis, siamo i colpevoli della malvagità del mondo che ci circonda. Una visione cupa, apocalittica, ma vedendo il film dobbiamo dire estremamente convincente.
A tutto questo vanno aggiunte, ovviamente, le straordinarie performance degli attori protagonisti. Jodie Foster è magnifica, commovente nel ritratto di giovane recluta che accetterà di essere 'violentata' nel proprio inconscio per salvare vite innocenti. La sua Clarice Starling è uno dei ruoli femminili più belli di sempre, ed è certo che Michelle Pfeiffer (la 'prima scelta' di Demme, che poi declinò la parte) si starà ancora mangiando le mani per quel rifiuto. Di Anthony Hopkins c'è poco da dire: questo ruolo è stato per lui nello stesso tempo un trionfo e una condanna: il personaggio di Hannibal the Cannibal gli si è appiccicato addosso per sempre, e la mezz'ora scarsa in cui compare nel film basta e avanza per additarlo come uno dei personaggi più famosi, orribili e nello stesso tempo affascinanti della storia del cinema.
La festa è quella del Ringraziamento, ma per noi cambia poco... i riti sono gli stessi e pure le situazioni. Ogni anno con l'approssimarsi del Natale mi viene spontaneo rivedere questo film spassosissimo e malinconico, opera seconda da regista di Jodie Foster. Una commedia dolceamara, imperniata sul tema della famiglia, sempre caro alla regista e con ovvi riferimenti alla propria situazione personale: la Foster, come si sa, non ha mai avuto una famiglia 'normale', e il messaggio del film è chiaro: la famiglia, per quanto strampalata, oppresiva, soffocante, improbabile che sia, è sempre la famiglia, e i legami di sangue sono più forti di ogni altra cosa. Malgrado, davvero, tutto quello che può succedere nel Pranzo del Thanksgiving!
Il film è infatti la cronaca di una 'giornata' particolare: quella di Claudia, ragazza-madre trentenne che torna a casa dai suoi genitori per il giorno del Ringraziamento. Le cose non le vanno necessariamente benissimo: è raffreddata e malaticcia, ha appena perso il lavoro, la figlia adolescente è rimasta a casa da sola col chiaro intento di perdere la verginità in quel weekend, la aspetta una riunione di famiglia che somiglia davvero a un incubo: ritroverà la madre conformista e iper-protettiva, il padre malinconico e bonaccione, una zia arteriosclerotica e fuori di testa, il fratello gay e 'destabilizzante', la sorella e il cognato (con tanto di nipote) convinti di essere l'unica coppia 'normale' in un 'universo' del genere... aggiungete poi un vicino triste e sfigato, da sempre innamorato (e mai ricambiato) di lei, una compagna di scuola oca e antipaticissima che è riuscita a sposare l'uomo giusto', il tacchino d'ordinanza che non vuol saperne di farsi affettare e, per contrappasso, i 'lunghi coltelli' che si affileranno man mano che procede la 'reunion'...
In pratica, c'è di tutto e di più per impazzire: ma Claudia (una strepitosa Holly Hunter, evidente alter-ego della regista) sa bene che non può farne a meno. Perchè come dice la stessa Foster 'stare in famiglia è come stare in ascensore con gente con cui non si ha niente da spartire. Ti fa sentire a disagio ma ci devi stare, perchè in quel momento non hai nessuno fuorchè loro'.
Il film deve molto alle commedie di Woody Allen (le analogie con Interiors sono evidenti), e ha un andamento di pari passo con la tradizione dei 'pranzi d'occasione': scoppiettante, divertentissimo, acido nella prima parte, si fa sempre più delicato e malinconico man mano che avanzano le portate in tavola. E il finale, con gli animi finalmente sereni dopo la 'bufera', con padre e figlia da soli che riguardano i filmini dell'infanzia, strappa più di qualche lacrima.
Insomma: il film davvero 'giusto' da vedere a Natale, impreziosito da un manipolo di attori 'stagionati' e straordinari: oltre alla Hunter troviamo Ann Bancroft, Geraldine Chaplin, Charles Durning, Robert Downey jr. (forse nella sua migliore interpretazione). E' un vero peccato che una pellicola così carina sia praticamente introvabile in Italia: uscita all'epoca in vhs non è mai stata riversata in dvd e non esiste una versione in commercio. La si trova solo on-line d'importazione (in lingua originale senza sottotitoli) oppure bisogna aspettare qualche raro passaggio televisivo.
In tal caso non lasciatevelo scappare!