domenica 28 novembre 2010

gli invisibili / ONDINE (Irlanda, 2010) di Neil Jordan

C'era una volta, in una terra tanto magica quanto 'maledetta', un pescatore solitario di nome Syracuse, detto 'Circus' (il clown, il matto del villaggio) che un bel giorno tira su dalle sue reti una ragazza bellissima e misteriosa, che dice di chiamarsi Ondine. La sua giovane figlia Annie è convinta che sia una 'selkie', cioè una creatura del folklore irlandese, simile a una sirena, gettatasi in mare per sfuggire alla malvagità delle persone. Syracuse nutre più di un dubbio, ma la ragazza si rifiuta di andare in ospedale e non vuole vedere nessuno oltre al suo salvatore: decide allora di portarla dentro la sua misera casupola e tenerla con sè, e da quel giorno le battute di pesca cominciano inaspettatamente a diventare sempre più fortunate...

L'ultimo film di Neil Jordan è un nostalgico e affettuoso ritorno alle origini, un dolce omaggio alla sua terra che mescola abilmente romanticismo e fantasia. Una favola moderna ambientata in una città di mare irlandese, con paesaggi mozzafiato e fotografia d'altri tempi firmata dal fido Christopher Doyle, che ti 'costringono' ad amare uno dei paesi più belli del mondo, ricco di suggestioni e grandi tradizioni. Ondine si ispira infatti alle leggende celtiche, e se certamente può apparire ingenuo e disincatato ad uno spettatore 'straniero' , non possiamo comunque non apprezzare lo sforzo fatto dal regista per 'attualizzare' e rendere credibile una storia 'fantastica' come questa.

Alla fine, però, l'unico 'mistero' che resta davvero è come sia possibile che una pellicola come questa non riesca a trovare nel nostro paese uno straccio di distribuzione (è uscita direttamente in dvd): non bastano infatti un regista affermato, un attore famoso (Colin Farrell), una splendida protagonista (Alicja Bachleda, ne risentiremo parlare), le musiche accattivanti ed eteree dei Sigur Ros e una sceneggiatura dolce e romantica, perfetta per questo periodo dell'anno... Ondine avrebbe potuto essere il film di Natale ideale per grandi e piccini: non è stupido, non è volgare, non è violento ed è adatto a tutte le età: già... forse è troppo pericoloso per i nostri cinepanettoni!

In Irlanda hanno Neil Jordan e Farrell, noi Boldi, DeSica e Neri Parenti.
A ciascuno il suo.

VOTO: * * *


sabato 20 novembre 2010

FACEBOOK & me...

Mark Zuckerberg, almeno secondo il film che David Fincher gli ha 'dedicato', è una persona potente, ricca, terribilmente sola. Si può essere soli con '500 milioni di amici virtuali'? The Social Network sembra dirci di sì... Ho scritto nella recensione che trovate sotto che questo è un film 'epocale', il vero capolavoro di inizio millennio. Una pellicola generazionale dunque, eppure innegabilmente classica nella struttura, che ci riporta al vecchio cinema d'inchiesta hollywoodiano. E Zuckerberg ha, innegabilmente, i connotati del Charles Foster Kane di Quarto Potere: vive in un castello dorato e dipinto di azzurro (il colore di Facebook), è temuto, rispettato, forse odiato, sicuramente prigioniero di se stesso e di quello che si è costruito intorno.
Proprio per la sua proverbiale 'asocialità', forse, Zuckerberg ha intuito la vera rivoluzione del web 2.0: ciò che la gente desidera è semplicemente 'connettersi', vale a dire entrare in contatto l'uno con l'altro, non tanto per conoscersi bensì per 'spiarsi', per stare in mezzo agli altri, anche senza conoscersi e senza nemmeno il desiderio di farlo.
Sembrerà strano, eppure questo film così calato nel presente, così rappresentativo della società attuale, mi ha fatto pensare ad un racconto che amo tantissimo, scritto oltre un secolo fa...

Si parla di un uomo che "passeggiando per la città, scruta i numerosi passanti che si trova di fronte. Li descrive e li cataloga uno per uno, sa dire tutto di loro e, in particolare, riesce perfettamente a dedurre la loro posizione sociale. La descrizione della folla va avanti, fino a quando il narratore non scorge un uomo che desta il suo interesse perché non riesce a "capirlo". Questo individuo è minuto, di bassa statura e d'aspetto debole. Il protagonista decide, preso dalla curiosità, di seguirlo per catturare qualche informazione. I due vagano per tutta la città tornando svariate volte al punto dal quale sono partiti; passano quasi quarantott'ore, ma il misterioso uomo sembra non accorgersi del suo "stalker", e pare non aver voglia di tornare a casa: tutto quello che fa è cercare di stare sempre in mezzo alla folla" (da Wikipedia).

E' un celebre racconto di Edgar Allan Poe, 'L'uomo della folla'. E Facebook è esattamente 'la folla' stessa: un non-luogo dove tutti si incontrano anche senza avere nulla da dire, accomunati dallo spirito essenzialmente voyeristico che, attraverso le pagine dei profili personali dei singoli utenti, ci introduce in un mondo fatto di immagini e dettagli altrui. Sia per la curiosità morbosa di sapere 'chi c'è', sia per la sempre latente paura di restare da soli.

Anch'io ho un mio profilo Facebook. Ovviamente.
Ho cercato di resistere finchè ho potuto, provando a convincermi che non avevo nessuno da cercare, che non sapevo cosa farmene (non che adesso lo abbia capito...), che era una 'moda' che non mi avrebbe minimamente contagiato.
E invece eccomi qui, ogni sera, a gettare un rapido sguardo su quella paginetta bordata di azzurro.
Certo, non lo uso per incontrare persone, nè mi illudo di conoscere gente nuova. Lo uso principalmente come 'strumento' di divulgazione, in special modo per diffondere le pagine che state leggendo in questo momento. Ma tant'è. Ci sono e ci resterò probabilmente a lungo.
Zuckerberg aveva ragione, e forse aveva letto Poe: davanti a un pc, come in mezzo alla folla, siamo tutti più sicuri di noi stessi, meno inibiti, meno spaventati.
E, sicuramente, un po' più soli.

THE SOCIAL NETWORK (USA, 2010) di David Fincher


The Social Network parte subito: non si fa in tempo a spegnere le luci in sala che il film ha smania di inziare, si sentono i primi dialoghi quando ancora vediamo sullo schermo il logo della Columbia Pictures. Dialoghi serrati, ritmo frenetico, montaggio vorticoso. L'ultimo film di David Fincher è lo specchio più fedele del mondo in cui viviamo, dove tutto va veloce senza darti la possibilità di ragionare, e dove il capitalismo 2.0 non ti lascia altra strada se non quella di inseguire a perdifiato le mode del momento, pena l'esclusione dalla vita sociale. E non poteva essere che così un film che racconta in prima persona quello che è il fenomeno dei fenomeni, l'invenzione più influente di questo inizio di secolo.


Ma attenzione: The Social Network non è SOLO un film su Facebook. E' qualcosa di molto più grande, più importante: è un lucido e spietato ritratto della società contemporanea, analizzata prendendo a pretesto una storia dove sono presenti tutti i (non)valori che la caratterizzano: i soldi in primis, ma anche l'invidia, l'arrivismo, la superficialità dei rapporti, l'egoismo e l'individualismo esasperato di chi è disposto a rinunciare a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi, senza guardare in faccia a nessuno. E, soprattutto, l'insensatezza di un mondo che permette ad un ragazzino complessato, brutto e antipatico (ma innegabilmente geniale) di diventare miliardario vendendo... il nulla.

Proprio così, il nulla. Il nulla più assoluto. Fincher ci racconta che Facebook è nato per una ripicca adolescenziale, un 'due di picche' dato da una studentessa molto carina al ragazzino 'nerd' di cui sopra. Non sappiamo se sia andata veramente così, ma non ha importanza. Quello che conta sono le conseguenze di questa invenzione: Facebook ha conquistato in poco tempo mezzo miliardo di utenti approfittando del vuoto pneumatico di valori di questa società. Ci si registra, si stringono decine, spesso centinaia di 'amicizie' virtuali con persone che nemmeno si conoscono illudendoci di poter scacciare la solitudine o instaurare nuovi rapporti. E invece proprio Facebook è di per sè una gigantesca illusione, quella che ti fa credere non solo di poter 'socializzare' attraverso la tastiera di un computer, ma anche che sia più facile farlo, col rischio (purtroppo ben reale) di attribuire alle relazioni 'virtuali' la stessa importanza di quelle reali. Esattamente come succede al suo 'creatore', che nella scena finale del film (la più disperata e malinconica) cerca di convincersi che basterà un 'click' di mouse per riconquistare la persona amata...


Tuttavia, The Social Network non è un pamphlet contro Facebook, non sarebbe una cosa seria. E' invece un film che pone domande, che si interroga su chi siano i 'buoni' e i 'cattivi' nell'era del digitale. Mark Zuckerberg, il 'miliardario per caso' protagonista della storia ispira, a seconda dei momenti, tenerezza, rabbia e compassione. E' nello stesso tempo arrogante e ingenuo, antipatico e disgraziato, ricchissimo eppure solo. Rappresenta fedelemente l'immagine di una società civile disorientata, che cerca in tutti i modi disperatamente di farsi sentire, di uscire dal guscio, di stringere contatti con più persone possibile e, paradossalmente, che tende a isolarsi ancora di più a causa della superficialità di questi rapporti.

David Fincher firma con The Social Network il suo film più bello, il vero capolavoro di inizio millennio. Una pellicola durissima, solida, splendidamente 'classica', secondo lo schema dei grandi film americani d'inchiesta, che fa trasparire tutto il pessimismo e la cupa visione del mondo di un regista sempre coerente con le sue idee: ma se in Seven, Fight Club, e perfino in Benjamin Button (film apparentemente 'buonista' ma in relatà ben più complesso di quello che sembra) esisteva sempre una porta aperta verso la speranza, o quantomeno un invito alla 'resistenza', The Social Network è un film di una tristezza infinita, sul disperato bisogno di accettazione che ognuno di noi ha nel nostro intimo, e che non trova risposte in un mondo dominato dall'apparenza.

domenica 14 novembre 2010

ANIMAL KINGDOM (Australia, 2010) di David Michod

Se Animal Kingdom fosse un documentario sarebbe portentoso: l'opera prima dell'australiano David Michod, vincitrice del Sundance Sestival 2010, è infatti assolutamente straordinaria per capacità espressiva e potenza visiva. E' un'agghiacciante e spietata fotografia della 'peggio gioventù' di Melbourne, una criminalità iper-violenta fatta di bande armate, brutali assassini, scorribande notturne, indicibili atrocità che mettono in luce il lato più nero e 'proibito' della terra dei canguri: l'avreste mai immaginato? Io decisamente no. E questo la dice lunga sulla 'percezione' che abbiamo noi europei di questo continente immenso, lontanissimo ed evidentemente sconosciuto.

Il regno animale del titolo è quello in cui viene a trovarsi Joshua (detto 'J'), un adolescente timido e complessato come tanti che una sera si ritrova a guardare la tv accanto al cadavere della madre, morta per overdose. Sembra il tragico epilogo di una storia qualunque, e invece per il problematico ragazzino è appena l'inizio di una discesa agli inferi che si rivelerà inarrestabile: sarà infatti 'adottato' dalla nonna, la quale anziana vegliarda (ma non troppo!) è a capo di una famiglia di gangsters che semina il panico per le strade della metropoli. Comincia così il periodo di 'iniziazione' di J alla malavita, fatto di pericolose quanto drammatiche azioni criminali, che si alternano ai rari momenti di intimità dove il ragazzo è inizialmente vittima (e poi carnefice) delle morbose attenzioni dell'energica nonnina...
Il regista è bravo nel raccontare visivamente, con freddezza (appunto) documentaristica, le vicende sballate e cruente di questa famiglia sui-generis, anche grazie alla propria esperienza diretta che, prima di dedicarsi al cinema, lo vedeva impegnato come reporter e giornalista freelance.

Quello che però lascia un po' perplessi è la troppa 'perfezione' della messinscena, nonchè la meticolosa, distaccata e infallibile preparazione di ogni sequenza, di ogni inquadratura, che finisce col rendere piuttosto artefatto l'universo in cui si cerca di far entrare lo spettatore... insomma, sembra quasi che la trama serva al regista come pretesto per sciorinare un 'manuale' di stile indubbiamente efficace: il che, per carità, è più che legittimo, ma che stona decisamente in un racconto di finzione. Animal Kingdom vorrebbe sconvolgere, indignare, dare cazzottoni negli stomaci di chi lo guarda, ma la sua perfezione stilistica va decisamente a scapito dell'emotività, e all'arrivo dei titoli di coda sembra di avere assistito, più che a un racconto 'maledetto', ad un freddo trattato di criminologia.

VOTO: * * *

venerdì 12 novembre 2010

NOI CREDEVAMO... di vivere in un paese migliore.

A Venezia aleggiava un sospetto terribile: che Noi Credevamo, grandioso e cupo affresco sul Risorgimento (per le ragioni che capirete vedendo il film) firmato Mario Martone, venisse distribuito direttamente in televisione senza godere di alcun passaggio cinematografico... e molti già gridavano allo scandalo. Invece, poche settimane fa, ecco quella che pareva davvero una buona notizia: la Rai (che produce il film attraverso la controllata 01 distribution) annunciava trionfalmente che la pellicola sarebbe uscita nelle sale italiane il 12 novembre prossimo. Alleluja!

Mai fidarsi troppo però... della nostra tv di stato e dei poteri forti del nostro paese, intendo. E infatti, scorrendo la programmazione cinematografica, ecco materializzarsi la beffa: è vero, Noi Credevamo (a parere di chi scrive, di gran lunga il film più bello dell'ultima Mostra del Cinema) esce oggi nei cinema, ma a quale prezzo!

Il film che doveva celebrare in pompa magna i 150 anni dell'Unità d'Italia, costato alla Rai circa 7 milioni di euro, viene distribuito in appena 30-sale-30 in tutto il territorio nazionale!! E, quel che è peggio, vergognosamente sforbiciato di quasi mezz'ora di proiezione per contenere la durata entro le tre ore, in modo da consentire agli esercenti di programmare uno spettacolo giornaliero in più!

Certo, inutile indignarsi o stracciarsi le vesti.
Ormai tutti sappiamo che il nostro paese è questo. Un paese dove la cultura è quasi un fastidio, un lusso che non ci possiamo permettere. E dove un Ministro della Repubblica può permettersi di affermare candidamente che 'la cultura non fa mangiare'... E' il ben noto atteggiamento di una classe dirigente becera e ignorante (e politicamente ben schierata, inutile dire con chi) che da sedici anni a questa parte persegue sistematicamente tutto ciò che ha a che fare con la creatività e l'ingegno. Il disegno è chiaro: annientare sistematicamente la Cultura per lobotomizzare un popolo già poco colto di suo, e quindi ben 'malleabile'...

Non so davvero se consigliarvi di andare a vedere Noi Credevamo. La versione vista a Venezia era un capolavoro: insieme a Il mestiere delle armi di Olmi, forse il film italiano più importante dell'ultimo quarto di secolo. Quella che esce oggi nelle trenta-sale-trenta che hanno avuto il coraggio di programmarlo non si sa... a questo punto, meglio davvero aspettare il dvd.

La recensione:
http://solaris-film.blogspot.com/2010/09/venezia-67-noi-credevamo-italia-2010-di.html

domenica 7 novembre 2010

UNA VITA TRANQUILLA (Italia, 2010) di Claudio Cupellini


Ancora Toni, sempre Toni, fortissimamente Toni.
Che Toni Servillo sia il più bravo attore italiano in circolazione, ormai lo sanno anche i sassi. E si sa che in Italia, vista la cronica carenza di grandi interpreti che affligge il nostro cinema, quando c'è un 'personaggio' che funziona viene spremuto fino all'ultimo come un limone. Tradotto: Servillo è grande, ma deve stare attento a non 'svendersi', a non inflazionarsi, pena la condanna a restare schiavo di un ruolo che potrebbe segnarlo per tutta la vita.
Il ruolo, ovviamente, è sempre quello di Titta DeGirolamo. Il latitante esiliato all'estero per espiare colpe antiche, nell'illusoria speranza di tagliare i ponti con il passato.

Una vita tranquilla, secondo lungometraggio di Claudio Cupellini, (ri)parte proprio da questo spunto, giocandosi così in partenza una buona fetta di originalità. Servillo è Rosario, ristoratore napoletano emigrato (così pare) nella fredda e umida periferia tedesca per cercare fortuna. Ha un ristorante avviato, una bella moglie teutonica, un bambino in età scolare e un'esistenza apparentemene serena. Ma già in una delle prime scene si capisce che qualcosa non quadra in questo confortante idillio: si vede Rosario nel giardino di casa che pianta lunghi chiodi negli alberi allo scopo di farli ammalare. In Germania abbattere gli alberi è quasi sacrilego e le autorità acconsentono al loro taglio solo se, appunto, sono malati. E questo è l'unico modo per ampliare la propria casa...

Attenzione: Rosario non è il classico 'palazzinaro' italico, nè tantomeno un ignorante irrispettoso della natura. E', semplicemente, un camorrista. Uno che è fuggito di nascosto in Germania per salvare la pelle, cercando faticosamente di ricostruirsi un'identità e una vita nuova. E figuriamoci se uno così si fa degli scrupoli ambientalisti!
Un giorno però accade qualcosa che va a minare il quadretto: nel ristorante si presentano due ragazzi napoletani, capitati fin lì 'in viaggio d'affari' e decisi a non andarsene prima di aver completato la loro 'missione'. Uno di questi è Diego, il figlio segreto di Rosario, abbandonato parecchi anni prima durante la fuga; l'altro è un suo complice, che tra l'altro conosce bene il padrone di casa... i due, ovviamente, sono venuti per uccidere: nella fattispecie, un ricco imprenditore locale che sta per concludere una commessa da venti milioni di euro per incenerire i rifiuti campani.
Rosario è, chiaramente, sconvolto ma non sorpreso. In un certo senso se lo aspettava. Sapeva che il passato (leggi la camorra), prima o poi ti viene a chiedere il conto, e tanto più è antico tanto più è salato. E stavolta il prezzo da pagare è davvero alto...

Una vita tranquilla è, principalmente, un film sul rapporto tra padri e figli. Sul passato che ritorna, e che le distanze non possono annullare. Sul conflitto d'interesse di un figlio perduto, che sta 'dalla parte sbagliata', e che vede il suo posto spodestato da un ragazzino biondo che va a scuola e parla tedesco... La materia, come si vede, è interessante e delicata. E sarebbe stata una buona occasione per girare una pellicola intimista e introspettiva, che andasse a scandagliare nelle teste e nelle esistenze di due personaggi agli antipodi per età, sentimenti e modo di vivere.
Il regista invece sceglie la strada più facile, quella del thriller, e riempe il film di sparatorie, assassinii, inseguimenti in auto, rapimenti. Ed è qui che delude: la trama gialla non è sorretta a modo da una sceneggiatura che fa acqua in più punti, e molte cose finiscono col non tornare e mettendo in secondo piano quello che è, come detto, l'assunto principale del film.

A salvare il film è manco a dirlo Toni Servillo, che qui è ancora una volta straordinario: la sua interpretazione di un mafioso latitante che si vede crollare addosso il mondo che si era costruito è davvero magistrale. Molto più della caricatura macchiettistica del Gorbaciof di Incerti. Qui l'attore napoletano lavora per sottrazione, sostituendo smorfie e tic con una recitazione dolente e composta, ferocemente 'normale'.
Niente da dire, anche se ci piacerebbe vederlo magari meno spesso ma in ruoli diversi e non stereotipati. Uno di questi è il suo impegno in Noi credevamo di Martone, dove Servillo interpreta Giuseppe Mazzini, in un ruolo temporalmente risicato ma non certo marginale. Forse il migliore tra tutti quelli interpretati in quest'anno di super-lavoro. Esce venerdì nelle nostre sale, e vi consiglio vivamente di non perderlo.

VOTO: * * *

UOMINI DI DIO (Francia, 2010) di Xavier Beauvois

Algeria, 1996: una colonia di monaci cristiani vive in pace e in perfetta sintonia con la popolazione musulmana, chiaramente in stragrande maggioranza. I religiosi vivono del loro lavoro, partecipano perfettamente integrati alla vita sociale del luogo, offrono gratuitamente assistenza, conforto e alloggio a chiunque ne abbia bisogno, di qualsiasi etnia o religione siano. Ma l'Algeria, si sa, è una polveriera, una 'Santa Barbara' pronta ad esplodere per il minimo pretesto. Un giorno un gruppo di lavoratori stranieri viene massacrato da una cellula di terroristi e ai poveracci, disperati, non resta che chiedere aiuto al monastero guidato da Padre Christian, innescando una pericolosa quanto involontaria rappresaglia. L'esercito si offre di proteggere i coraggiosi monaci, ma Padre Christian rifiuta di farsi coinvolgere in schermaglie politiche e va avanti per la propria strada, che da allora (è il giorno di Natale) si farà sempre più sanguinosa...

Uomini di Dio, contrariamente a quello che si può credere dal titolo, è tutt'altro che un film religioso. O almeno non è soltanto questo: è un film che parla di integrazione, di tolleranza, di rispetto delle idee e di opinioni altrui in un mondo in cui è difficilissimo confrontarsi. Per questo sui titoli di coda ci sentiamo tutti coinvolti e commossi dall'epilogo (non credo di 'spoilerare' dicendovi che sarà inevitabilmente tragico). E' una bella e drammatica storia, che parla alla gente, a tutti noi, e lo fa assolutamente senza manierismo o ipocrisie cinefile. Non ci sono scene madri o sequenze ad effetto, ma tutta la vicenda si dipana in modo sobrio e quasi documentaristico: la regia riempe il ritmo lento (ma non noioso) della pellicola con i canti, i silenzi, le tradizioni, lo scorrere del tempo in un luogo sacro e apparentemente inviolabile. Una piccola enclave cristiana in terra musulmana, dove per secoli le due etnie avevano convissuto pacificamente.

Il film di Beauvois racconta scrupolasamente, in modo equidistante, la storia di quei giorni di sangue. Senza prendere posizione e senza edulcorare i sentimenti di chi guarda. Ne viene fuori un'opera onesta, nobile, toccante e coraggiosa. Che cerca di avvicinare e comprendere, o solo semplicemente di parlare. Rappresenterà la Francia agli Oscar 2011, con concrete (e meritate) possibilità di vittoria.
VOTO: * * * *