"Silent Friend", di Ildikò Enyedi |
No, non è stata affatto una Mostra qualitativamente scarsa come in tanti si sono affrettati a scrivere. Anzi. I film buoni ci sono stati, eccome, anche se alcuni di questi sono rimasti inspiegabilmente fuori dal Concorso principale, che comunque al netto delle solite 2-3 ciofeche "fisiologiche" ha proposto una qualità media di tutto rispetto. E' mancato forse il film-evento, quello che mette tutti d'accordo, anche se l'attenzione mediatica rivolta verso The Voice of Hind Rajab, il film palestinese sugli orrori di Gaza, ha fatto sì che non si parlasse di altro e purtroppo (a mio parere) di temi che nella stragrande maggioranza dei casi esulavano dal contesto cinematografico (ed è il motivo per cui mi sono rifiutato di vederlo). Ad ogni modo, a partire dal Leone d'oro di Father Mother Sister Brother (che non è affatto un Jarmusch "minore") fino al delizioso Silent Friend di Ildikò Enyedi (il film più amato dai critici e dal sottoscritto), ecco come ogni anno una panoramica non esaustiva delle mie visioni veneziane: mancano all'appello un paio di titoli importanti (La Grazia di Paolo Sorrentino e After the hunt di Luca Guadagnino) che non sono riuscito a vedere e li recupererò in sala, nonchè qualche altro titolo che non ha solleticato il mio interesse, ma c'è comunque tanta, tanta carne al fuoco. Quanto basta per stimolare l'attesa.
p.s. senza poi dimenticare Portobello, la serie televisiva su Enzo Tortora diretta di Marco Bellocchio di cui a Venezia abbiamo visto solo i primi due episodi: ovviamente non posso recensire un prodotto non finito, ma se il buongiorno si vede dal mattino è davvero tanta, tanta roba... ma trattandosi di Bellocchio, c'era da dubitarne?
p.s. senza poi dimenticare Portobello, la serie televisiva su Enzo Tortora diretta di Marco Bellocchio di cui a Venezia abbiamo visto solo i primi due episodi: ovviamente non posso recensire un prodotto non finito, ma se il buongiorno si vede dal mattino è davvero tanta, tanta roba... ma trattandosi di Bellocchio, c'era da dubitarne?
SILENT FRIEND (di Ildikò Enyedi, Germania/Ungheria - CONCORSO) ★★★★★
Un film che è un'autentica meraviglia, uno di quei film che ti fanno star bene, che ti rimettono in pace con il mondo. Il "protagonista" è un gigantesco albero secolare che assiste e condiziona (in positivo) le vite di tre persone diverse in epoche diverse: nel 1908 una giovane studentessa è la prima donna ad essere ammessa in un'università pubblica; nel 1972 un ragazzo timido s'innamora di una coetanea disinibita che studia botanica attraverso una pianta di geranio che tiene sul balcone; nel 2020 un ricercatore rimane bloccato in un campus a causa della pandemia e trova conforto grazie a una bella scienziata conosciuta online. Film di enorme suggestione, evocativo, raffinato, sul potere silenzioso delle piante e il loro influsso benefico sulla mente degli esseri umani. Un vero gioello.
NO OTHER CHOICE (di Park Chan-wook, Corea del Sud - CONCORSO) ★★★★☆
Park Chan-wook torna a Venezia dopo vent'anni per parlarci del folle mondo del lavoro di oggi. Un film (bellissimo) che unisce commedia nera, dramma e grottesco per raccontare la parabola discendente di Man-su, ex alcolista e operaio in una cartiera, licenziato dopo venticinque anni di servizio, travolto dalla paura dell'indigenza e (soprattutto) dalla perdita di dignità. Costretto a sacrifici estremi, arriva a immaginare l'omicidio dei suoi colleghi (e rivali) come unica possibilità di riscatto. Remake de Il cacciatore di teste di Costa-Gavras (cui il film è dedicato), No other choice colpisce per potenza visiva e narrativa, offrendo una riflessione amara e pungente sulla precarietà e la competizione nello spietato mondo degli affari.
Park Chan-wook torna a Venezia dopo vent'anni per parlarci del folle mondo del lavoro di oggi. Un film (bellissimo) che unisce commedia nera, dramma e grottesco per raccontare la parabola discendente di Man-su, ex alcolista e operaio in una cartiera, licenziato dopo venticinque anni di servizio, travolto dalla paura dell'indigenza e (soprattutto) dalla perdita di dignità. Costretto a sacrifici estremi, arriva a immaginare l'omicidio dei suoi colleghi (e rivali) come unica possibilità di riscatto. Remake de Il cacciatore di teste di Costa-Gavras (cui il film è dedicato), No other choice colpisce per potenza visiva e narrativa, offrendo una riflessione amara e pungente sulla precarietà e la competizione nello spietato mondo degli affari.
À PIED D'ŒUVRE (di Valérie Donzelli, Francia - CONCORSO) ★★★★☆
La storia (vera) di un fotografo che molla tutto per inseguire il suo sogno, quello di diventare scrittore, anche a costo di affrontare la povertà e il ludibrio altrui. Non è però il "solito" film sul sogno impossibile che diventa realtà, bensì uno spaccato allucinante sulla globalizzazione e sulla precarietà, senza alcuna retorica e pure con un pizzico di ironia. Un altro film che parla di lavoro, sfruttamento, diritti negati, nonchè una bella riflessione sul prezzo della libertà. Dura appena 92 densissimi minuti, ed è quasi un miracolo di questi tempi. Chapeau.
La storia (vera) di un fotografo che molla tutto per inseguire il suo sogno, quello di diventare scrittore, anche a costo di affrontare la povertà e il ludibrio altrui. Non è però il "solito" film sul sogno impossibile che diventa realtà, bensì uno spaccato allucinante sulla globalizzazione e sulla precarietà, senza alcuna retorica e pure con un pizzico di ironia. Un altro film che parla di lavoro, sfruttamento, diritti negati, nonchè una bella riflessione sul prezzo della libertà. Dura appena 92 densissimi minuti, ed è quasi un miracolo di questi tempi. Chapeau.
DEAD MAN'S WIRE (di Gus Van Sant, USA - FUORI CONCORSO) ★★★★☆
Il ritorno in grande stile di Gus Van Sant, che ricostruisce pezzo per pezzo la vera storia di Tony Kiritsis, un cittadino di Indianapolis che nel 1977 prese in ostaggio il vicepresidente della compagnia che gli aveva concesso un mutuo che non riusciva più a pagare. Van Sant evita la cronaca spettacolarizzata e sceglie un racconto claustrofobico, teso, a tratti surreale, che riflette sul rapporto tra follia, giustizia e spettacolo mediatico. Bill Skarsgard è davvero inquietante nei panni del sequestratore, disperato e fragile al tempo stesso, Dacre Montgomery restituisce un personaggio vulnerabile ma mai passivo, Al Pacino è lo specchio di un capitalismo inumano e senza scrupoli. La regìa richiama i polizieschi anni '70, costruendo un affresco visivo di grande intensità.
Il ritorno in grande stile di Gus Van Sant, che ricostruisce pezzo per pezzo la vera storia di Tony Kiritsis, un cittadino di Indianapolis che nel 1977 prese in ostaggio il vicepresidente della compagnia che gli aveva concesso un mutuo che non riusciva più a pagare. Van Sant evita la cronaca spettacolarizzata e sceglie un racconto claustrofobico, teso, a tratti surreale, che riflette sul rapporto tra follia, giustizia e spettacolo mediatico. Bill Skarsgard è davvero inquietante nei panni del sequestratore, disperato e fragile al tempo stesso, Dacre Montgomery restituisce un personaggio vulnerabile ma mai passivo, Al Pacino è lo specchio di un capitalismo inumano e senza scrupoli. La regìa richiama i polizieschi anni '70, costruendo un affresco visivo di grande intensità.
A HOUSE OF DYNAMITE (di Kathryn Bigelow, USA - CONCORSO) ★★★★☆
Otto anni dopo Detroit, Kathryn Bigelow torna dietro la mdp con un film teso e lucidissimo. A house of dynamite, scritto da Noah Oppenheim e prodotto da Netflix, mette in scena l'incubo nucleare in chiave reailstica: un missile viene lanciato (non si sa da chi) contro gli Stati Uniti e restano solo diciannove minuti per decidere cosa fare. La Bigelow, al solito, costruisce una tensione crescente attraverso volti, decisioni e paure di persone comuni travolte da una crisi enorme. Senza mai indicare chiaramente un colpevole, il film diventa un monito sull'instabilità geopolitica e la fragilità delle istituzioni, ricordandoci quanto la nostra "casa" globale sia devvero piena di dinamite. Certo, la domanda che tutti si porranno sarà: e se al posto di un Presidente angosciato e responsabile come Idris Elba ci fosse uno come... Donald Trump?
Otto anni dopo Detroit, Kathryn Bigelow torna dietro la mdp con un film teso e lucidissimo. A house of dynamite, scritto da Noah Oppenheim e prodotto da Netflix, mette in scena l'incubo nucleare in chiave reailstica: un missile viene lanciato (non si sa da chi) contro gli Stati Uniti e restano solo diciannove minuti per decidere cosa fare. La Bigelow, al solito, costruisce una tensione crescente attraverso volti, decisioni e paure di persone comuni travolte da una crisi enorme. Senza mai indicare chiaramente un colpevole, il film diventa un monito sull'instabilità geopolitica e la fragilità delle istituzioni, ricordandoci quanto la nostra "casa" globale sia devvero piena di dinamite. Certo, la domanda che tutti si porranno sarà: e se al posto di un Presidente angosciato e responsabile come Idris Elba ci fosse uno come... Donald Trump?
FATHER MOTHER SISTER BROTHER (di Jim Jarmusch, USA - CONCORSO) ★★★★☆
Non un Jarmusch "minore", come parte della critica miope ha sentenziato, ma un Jarmusch in gran forma che tratta con delicatezza, ironia e dolore i rapporti umani e famigliari, che talvolta possono essere insondabili. Tre episodi narranti altrettante, difficili, a volte imbarazzanti, a volte struggenti relazioni interpersonali, interpretate da un cast di assoluto livello (Tom Waits, Adam Driver, Cate Blanchett, Charlotte Rampling). Un film in cui tutti possiamo trovare qualcosa che ci accomuna, qualcosa di noi stessi.
BUGONIA (di Yorgos Lanthimos, USA - CONCORSO) ★★★☆☆
Ormai habituè del Lido, Yorgos Lanthimos torna in concorso con questo remake di un film coreano del 2003 (Save the green planet, di Jang Joon-hwan) trasposto nell'America di oggi. Il titolo richiama Virgilio e una sua dissertazione sulle api come simbolo del ciclo della vita, metafora di rinascita e caos. Satira, horror e grottesco convivono in questo racconto che mescola ironia e splatter: una coppia di apicoltori sequesta la CEO di una multinazionale (Emma Stone, ormai musa a tutti gli effetti del regista), vedendo in lei la causa della morte dei propri alveari. La vicenda, surreale, si trasforma ben presto in una sfida psicologica tra vittima e carnefici, dove la natura tradita e il risveglio delle api diventano specchio di un pianeta avvelenato dall'uomo.
FRANKENSTEIN (di Guillermo Del Toro, USA - CONCORSO) ★★★☆☆
Guillermo Del Toro realizza finalmente il suo sogno di adattare Frankenstein, firmando un'opera personale e profondamente spirituale, restando però molto fedele al romanzo di Mary Shelley e dando sfogo ai suoi temi di sempre: dolore, paternità, fede e rifiuto della guerra. La storia alterna i punti di vista di Victor e del mostro, rivelando il legame fragile e crudele tra Creatore e Creatura, padre e figlio. Grande spazio è dedicato al percorso di apprendimento e sofferenza della Creatura, simbolo universale di un'umanità ferita. Visivamente sincero, potente, forse a tratti un po' ingenuo, sicuramente prolisso, con un respiro da grande cinema classico.
Guillermo Del Toro realizza finalmente il suo sogno di adattare Frankenstein, firmando un'opera personale e profondamente spirituale, restando però molto fedele al romanzo di Mary Shelley e dando sfogo ai suoi temi di sempre: dolore, paternità, fede e rifiuto della guerra. La storia alterna i punti di vista di Victor e del mostro, rivelando il legame fragile e crudele tra Creatore e Creatura, padre e figlio. Grande spazio è dedicato al percorso di apprendimento e sofferenza della Creatura, simbolo universale di un'umanità ferita. Visivamente sincero, potente, forse a tratti un po' ingenuo, sicuramente prolisso, con un respiro da grande cinema classico.
SOTTO LE NUVOLE (di Gianfranco Rosi, Italia - CONCORSO) ★★★☆☆
Il nuovo film di Gianfranco Rosi coglie la fragilità e l'ironia tutta napoletana della vita con uno sguardo più attento ai dettagli che all'insieme. Come in Sacro GRA a lui interessano più le persone e le loro storie anzichè la complessità "alla Sorrentino". Un cinema personale, fuori da ogni schema, con cui Rosi conferma la sua grande attenzione per gli ultimi. Un affresco curioso, poetico e radicalmente libero. Certo, c'è chi sostiene (giustamente) che i film di Rosi non siano documentari veri e propri perchè i suoi personaggi recitano come attori, ma fa parte della cifra artistica di un Autore a tutto tondo.
Il nuovo film di Gianfranco Rosi coglie la fragilità e l'ironia tutta napoletana della vita con uno sguardo più attento ai dettagli che all'insieme. Come in Sacro GRA a lui interessano più le persone e le loro storie anzichè la complessità "alla Sorrentino". Un cinema personale, fuori da ogni schema, con cui Rosi conferma la sua grande attenzione per gli ultimi. Un affresco curioso, poetico e radicalmente libero. Certo, c'è chi sostiene (giustamente) che i film di Rosi non siano documentari veri e propri perchè i suoi personaggi recitano come attori, ma fa parte della cifra artistica di un Autore a tutto tondo.
Safdie dirige con mano sicura la storia (vera) di The Smashing Machine, affidando a Dwayne Johnson il ruolo di Mark Kerr, autentica leggenda della MMA tra il 1997 e il 2000. Il film racconta il suo periodo di gloria, ma anche la fragilità nascosta: il non sapere accettare le sconfitte ma soprattutto la sua dipendenza da oppiacei, che ne minerà la salute mentale. Johnson, qui sorprendentemente con i capelli e in una prova d'autore, si è impegnato molto nel progetto, anche come coproduttore insieme a A24. Le scene di lotta sono potenti, il racconto alterna vittorie e cadute, mentre la dimensione privata aggiunge tensione melodrammatica.
DUSE (di Pietro Marcello, Italia - CONCORSO) ★★★☆☆
Pietro Marcello firma un ritratto intenso e inaspettato della "Divina" del teatro italiano. Il regista evita l'agiografia e sceglie di raccontare gli ultimi anni dell'attrice, tra la malattia e la difficoltà ad accettare il declino, restituendo un'immagine fragile e umana dietro al mito. La regìa elegante (forse troppo) e la vibrante colonna sonora creano un affresco sospeso tra intimità e storia, mentre Valeria Bruni Tedeschi offre una performance audace e sofferta, capace di trasformare la Duse in un personaggio magnetico e contraddittorio. Film affascinante ma anche troppo trattenuto, algido, che divide ma anche seduce, invitandoci a vedere anche oltre la leggenda.
Pietro Marcello firma un ritratto intenso e inaspettato della "Divina" del teatro italiano. Il regista evita l'agiografia e sceglie di raccontare gli ultimi anni dell'attrice, tra la malattia e la difficoltà ad accettare il declino, restituendo un'immagine fragile e umana dietro al mito. La regìa elegante (forse troppo) e la vibrante colonna sonora creano un affresco sospeso tra intimità e storia, mentre Valeria Bruni Tedeschi offre una performance audace e sofferta, capace di trasformare la Duse in un personaggio magnetico e contraddittorio. Film affascinante ma anche troppo trattenuto, algido, che divide ma anche seduce, invitandoci a vedere anche oltre la leggenda.
LA VALLE DEI SORRISI (di Paolo Strippoli, Italia - FUORI CONCORSO) ★★★☆☆
Sergio Rossetti (Michele Riondino) è un insegnante di educazione fisica che viene trasferito a Remis, un piccolo villaggio di montagna dove regna una serenità quasi innaturale. L'uomo in breve tempo scoprirà quanto questa "calma apparente" sia solo una parvenza, una maschera dietro la quale si nascondono rituali sinistri... coraggioso horror tutto italiano del debuttante Paolo Strippoli, di notevole intensità e atmosfera. Molto apprezzato dal pubblico, è attesa alla prova delle sale.
Sergio Rossetti (Michele Riondino) è un insegnante di educazione fisica che viene trasferito a Remis, un piccolo villaggio di montagna dove regna una serenità quasi innaturale. L'uomo in breve tempo scoprirà quanto questa "calma apparente" sia solo una parvenza, una maschera dietro la quale si nascondono rituali sinistri... coraggioso horror tutto italiano del debuttante Paolo Strippoli, di notevole intensità e atmosfera. Molto apprezzato dal pubblico, è attesa alla prova delle sale.
UN ANNO DI SCUOLA (di Laura Samani, Italia - ORIZZONTI) ★★★☆☆
Il secondo lungometraggio di Laura Samani trasporta l'omonimo romanzo di Giani Stuparich dalla Trieste del 1909 a quella dei tempi nostri. La protagonista è Fred, diciottenne svedese trasferitasi in Italia e unica ragazza in una classe di soli maschi. Tra legami affettivi, gelosie e tensioni, la giovane si confronta con la difficoltà di crescere e di trovare il suo posto nel mondo. La regista indaga con delicatezza le tematiche adolescenziali traendone un film delicato, intimo ma anche significativo e stimolante, che indaga le dinamiche della formazione. Ottima prova dei quattro giovani attori protagonisti, tutti esordienti: Stella Wendick, Pietro Giustolisi, Samuel Volturno e Giacomo Covi, premiato come miglior attore della sezione Orizzonti.
Il secondo lungometraggio di Laura Samani trasporta l'omonimo romanzo di Giani Stuparich dalla Trieste del 1909 a quella dei tempi nostri. La protagonista è Fred, diciottenne svedese trasferitasi in Italia e unica ragazza in una classe di soli maschi. Tra legami affettivi, gelosie e tensioni, la giovane si confronta con la difficoltà di crescere e di trovare il suo posto nel mondo. La regista indaga con delicatezza le tematiche adolescenziali traendone un film delicato, intimo ma anche significativo e stimolante, che indaga le dinamiche della formazione. Ottima prova dei quattro giovani attori protagonisti, tutti esordienti: Stella Wendick, Pietro Giustolisi, Samuel Volturno e Giacomo Covi, premiato come miglior attore della sezione Orizzonti.
MARC BY SOFIA (di Sofia Coppola, USA - FUORI CONCORSO) ★★★☆☆
Un breve documentario che Sofia Coppola dedica allo stilista Marc Jacobs, suo grande amico fin dall'infanzia e suo costumista d'eccezione. Un ritratto intimo e professionale di un uomo decisamente fuori dal comune, in cui viene ricostruito il percorso che porta dalla creazione di una nuova collezione fino al suo approdo alle passerelle. E anche in un prodotto di questo tipo lo stile inconfondibile di Sofia Coppola è riconoscibile e apprezzabile: toni pacati, eterei, colori pastello, poche parole e molte sensazioni. Ma il contenuto, in questo caso umanissimo, c'è eccome.
Un breve documentario che Sofia Coppola dedica allo stilista Marc Jacobs, suo grande amico fin dall'infanzia e suo costumista d'eccezione. Un ritratto intimo e professionale di un uomo decisamente fuori dal comune, in cui viene ricostruito il percorso che porta dalla creazione di una nuova collezione fino al suo approdo alle passerelle. E anche in un prodotto di questo tipo lo stile inconfondibile di Sofia Coppola è riconoscibile e apprezzabile: toni pacati, eterei, colori pastello, poche parole e molte sensazioni. Ma il contenuto, in questo caso umanissimo, c'è eccome.
L'ÉTRANGER (di François Ozon, Francia - CONCORSO) ★★★☆☆
Un film di François Ozon merita sempre la visione, anche se (come in questo caso) l'aspetto esteriore è superiore al messaggio. Ozon mette in scena una versione piuttosto classica de Lo Straniero di Camus, adattandolo in maniera quasi filologica. Ma il ritmo, lentissimo, quasi opprimente, non giova alla fruibilità del film, nonostante l'impegno del protagonista Benjamin Voisin, afasico quanto serve per interpretare il personaggio. Confezione al solito di gran classe e bianco e nero da dieci e lode.
AMMAZZARE STANCA (di Daniele Vicari, Italia - VENEZIA SPOTLIGHT) ★★★☆☆
E' un'altra storia vera quella portata sul grande schermo da Daniele Vicari, nella fattispecie quella di Antonio Zagari, mafioso calabrese residente al nord e diventato collaboratore di giustizia, in un film che ne evita la glorificazione ma che fatica a scandagliare certi momenti di conflitto interiore. Vicari mette in scena la vicenda con crudo realismo ma il percorso verso il pentimento resta vago, quasi posticcio. I punti di forza del film sono una regia e un cast assolutamente convincenti (bravissimi Gabriel Montesi e Vinicio Marchioni) e una fotografia "sporca" tipicamente anni '70, che fa presa sullo spettatore.
HUMAN RESOURCE (di Nawapol Thamrong, Thailandia - ORIZZONTI) ★★★☆☆
Ancora un film sul lavoro, proveniente dalla lontana Thailandia ma vicinissimo a noi per contenuti e riflessioni. Una giovane addetta alle risorse umane di una grande azienda deve conciliare, non senza fatica, un lavoro ingrato e difficile con la sua gravidanza poco convinta... una pellicola che mette insieme, riuscendoci, politiche del welfare e considerazioni sulla famiglia e sulla società. Una sceneggiatura un po' claudicante e un ritmo non propriamente frenetico non giovano alla fruizione, ma il risultato d'insieme è comunque interessante.
Ancora un film sul lavoro, proveniente dalla lontana Thailandia ma vicinissimo a noi per contenuti e riflessioni. Una giovane addetta alle risorse umane di una grande azienda deve conciliare, non senza fatica, un lavoro ingrato e difficile con la sua gravidanza poco convinta... una pellicola che mette insieme, riuscendoci, politiche del welfare e considerazioni sulla famiglia e sulla società. Una sceneggiatura un po' claudicante e un ritmo non propriamente frenetico non giovano alla fruizione, ma il risultato d'insieme è comunque interessante.
L'ISOLA DI ANDREA (di Antonio Capuano, Italia - FUORI CONCORSO) ★★★☆☆
Antonio Capuano affronta con delicatezza il tema della separazione, mettendo al centro della vicenda il piccolo Andrea, dieci anni, che deve fare i conti con l'affidamento condiviso con i genitori (Teresa Saponangelo e Vinicio Marchioni). Il film alterna momenti di forte emozione a scelte narrative discutibili, e il finale un po' tagliato con l'accetta lo fa apparire meno incisivo di quanto dovrebbe, ma nonostante questo si esce dalla sala con gli occhi abbastanza lucidi. Molto intense le prove dei protagonisti, compreso il piccolo Andrea Migliucci, al debutto sul grande schermo.
Antonio Capuano affronta con delicatezza il tema della separazione, mettendo al centro della vicenda il piccolo Andrea, dieci anni, che deve fare i conti con l'affidamento condiviso con i genitori (Teresa Saponangelo e Vinicio Marchioni). Il film alterna momenti di forte emozione a scelte narrative discutibili, e il finale un po' tagliato con l'accetta lo fa apparire meno incisivo di quanto dovrebbe, ma nonostante questo si esce dalla sala con gli occhi abbastanza lucidi. Molto intense le prove dei protagonisti, compreso il piccolo Andrea Migliucci, al debutto sul grande schermo.
UN FILM FATTO PER BENE (di Franco Maresco, Italia - CONCORSO) ★★☆☆☆
Sarò io ad essere fuori dal coro, ma per quanto riconosca la genialità di Franco Maresco questo suo ultimo lavoro non mi ha fatto spellare le mani dagli applausi, come invece a buona parte della critica. Il titolo è un gioco di parole su un film mai finito su Carmelo Bene, cui Maresco documenta in immagini la sua non-lavorazione e lo prende come esempio dello "stato delle cose" del cinema italiano... Vorrebbe essere un grido rabbioso di dolore o un beffardo saluto d'addio (ma chissà se lo sarà davvero), ma in realtà il film (che in maggior parte è fatto da spezzoni dei vecchi film di Maresco) non graffia mai come dovrebbe. Ed è un peccato.
ORPHAN (di Làszlò Nemes, Ungheria - CONCORSO) ★★☆☆☆
Delude, purtroppo, il nuovo film di Làszlò Nemes, già Oscar 2015 con il notevole Il figlio di Saul. Dai lager nazisti si passa alla Budapest del 1957, segnata dall'occupazione sovietica. Il giovane Andor cresce nel mito del padre creduto eroe e morto in un campo di sterminio, ma la realtà si rivela amarissima: il genitore è in realtà un furfante colluso col regime e il ragazzo non lo accetterà... Buona l'interpretazione del piccolo protagonista (dal nome impronunciabile) così come la fotografia anticata e le scenografie vintage che rendono bene il clima plumbeo dell'epoca. Eppure il film, che dura 134 minuti (interminabili) scivola ben presto nella pesantezza e nella lentezza narrativa.
Delude, purtroppo, il nuovo film di Làszlò Nemes, già Oscar 2015 con il notevole Il figlio di Saul. Dai lager nazisti si passa alla Budapest del 1957, segnata dall'occupazione sovietica. Il giovane Andor cresce nel mito del padre creduto eroe e morto in un campo di sterminio, ma la realtà si rivela amarissima: il genitore è in realtà un furfante colluso col regime e il ragazzo non lo accetterà... Buona l'interpretazione del piccolo protagonista (dal nome impronunciabile) così come la fotografia anticata e le scenografie vintage che rendono bene il clima plumbeo dell'epoca. Eppure il film, che dura 134 minuti (interminabili) scivola ben presto nella pesantezza e nella lentezza narrativa.
JAY KELLY (di Noah Baumbach, USA - CONCORSO) ★★☆☆☆
Un esercizio di stile stanco e abbastanza noioso l'ultimo film di Noah Baumbach, arrivato a Venezia insieme all'onnipresente George Clooney. Il protagonista, alter ego dello stesso Clooney, è un attore che fa i conti con età, famiglia e fallimenti: il viaggio in Toscana, tra ricordi e confessioni, dovrebbe segnare una rinascita esistenziale, ma in realtà offre più cartoline oleografiche che autentiche emozioni. La durata eccessiva (132 minuti) non agevola il ritmo, e nemmeno il ricco cast di corredo (Adam Sandler, Laura Dern, Alba Rohrwacher), riesce a salvare la narrazione. Qualche lampo di autenticità emerge (specie quando Clooney sembra parlare di sè) ma resta la sensazione di un'occasione sprecata, malgrado il nome del regista e la cornice prestigiosa.
Un esercizio di stile stanco e abbastanza noioso l'ultimo film di Noah Baumbach, arrivato a Venezia insieme all'onnipresente George Clooney. Il protagonista, alter ego dello stesso Clooney, è un attore che fa i conti con età, famiglia e fallimenti: il viaggio in Toscana, tra ricordi e confessioni, dovrebbe segnare una rinascita esistenziale, ma in realtà offre più cartoline oleografiche che autentiche emozioni. La durata eccessiva (132 minuti) non agevola il ritmo, e nemmeno il ricco cast di corredo (Adam Sandler, Laura Dern, Alba Rohrwacher), riesce a salvare la narrazione. Qualche lampo di autenticità emerge (specie quando Clooney sembra parlare di sè) ma resta la sensazione di un'occasione sprecata, malgrado il nome del regista e la cornice prestigiosa.
ELISA (di Leonardo di Costanzo, Italia - CONCORSO) ★★☆☆☆
Leonardo Di Costanzo aveva girato qualche anno fa Ariaferma, un mezzo capolavoro. Grande film, cupo e tesissimo, in cui ogni scena si trattiene il respiro. Quest'anno è tornato a Venezia con Elisa, ma il miracolo purtroppo non si è ripetuto. Elisa (Barbara Ronchi) è una donna quarantenne in carcere per aver ucciso la sorella, di cui ha rimosso (forse) ogni ricordo. L'incontro con un professore universitario che studia il suo caso le schiarirà le idee. Fine. Solo che stavolta non c'è tensione ma una pesantezza indicibile, oltretutto in un film fatto per il mercato italiano ma recitato quasi tutto in francese, giusto per appesantire ancora di più. In Italia verrà distribuito doppiato, azzerando così anche la differenza linguistica che vorrebbe essere uno degli aspetti da cui tenere conto.
LE MAGE DU KREMLIN (di Olivier Assayas, Francia - CONCORSO) ★☆☆☆☆
Jude Law che interpreta Putin è una delle cose più imbarazzanti viste al Lido quest'anno, quasi una parodia stile Crozza o Guzzanti... il problema è che anche il film rasenta l'imbarazzo, e se a dirigerlo è un regista solitamente raffinato come Olivier Assayas la delusione è doppia: tratto dal libro omonimo di tale Giuliano da Empoli (ex renziano di ferro e impenitente radical-chic) il film è una specie di Bignami di storia russa contemporanea (dalla caduta dell'URSS al regime del nuovo Zar) raccontata con dozzinale superficialità e stile da fotoromanzo. Paul Dano, il protagonista, è monoespressivo per 157 minuti. La presenza della sempre bella (e sprecata) Alicia Vikander, poco più che ornamentale.
Jude Law che interpreta Putin è una delle cose più imbarazzanti viste al Lido quest'anno, quasi una parodia stile Crozza o Guzzanti... il problema è che anche il film rasenta l'imbarazzo, e se a dirigerlo è un regista solitamente raffinato come Olivier Assayas la delusione è doppia: tratto dal libro omonimo di tale Giuliano da Empoli (ex renziano di ferro e impenitente radical-chic) il film è una specie di Bignami di storia russa contemporanea (dalla caduta dell'URSS al regime del nuovo Zar) raccontata con dozzinale superficialità e stile da fotoromanzo. Paul Dano, il protagonista, è monoespressivo per 157 minuti. La presenza della sempre bella (e sprecata) Alicia Vikander, poco più che ornamentale.
THE TESTAMENT OF ANN LEE (di Mona Fastvold, USA - CONCORSO) ★☆☆☆☆
Un musical torvo e cruento ambientato nell'Inghilterra del tardo '700 e narrante la storia di Ann Lee (Amanda Seyfried), giovane sposa di un fabbro ferraio che dopo quattro aborti spontanei fonda una setta religiosa basata sulla castità... non trovando adepti in patria fuggirà in America per cercare miglior fortuna. Non troverà nessuno disposta a seguirla nemmeno lì e morirà in manicomio a 50 anni. Mona Fastvold è la moglie di Brady Corbet e insieme a lui ha scritto la sceneggiatura di The Brutalist, e per questo le vogliamo bene comunque. Ma questo film... perchè??
Un musical torvo e cruento ambientato nell'Inghilterra del tardo '700 e narrante la storia di Ann Lee (Amanda Seyfried), giovane sposa di un fabbro ferraio che dopo quattro aborti spontanei fonda una setta religiosa basata sulla castità... non trovando adepti in patria fuggirà in America per cercare miglior fortuna. Non troverà nessuno disposta a seguirla nemmeno lì e morirà in manicomio a 50 anni. Mona Fastvold è la moglie di Brady Corbet e insieme a lui ha scritto la sceneggiatura di The Brutalist, e per questo le vogliamo bene comunque. Ma questo film... perchè??
Diciamo la verità: se Julian Schnabel non fosse Julian Schnabel non avrebbe mai incontrato nessun produttore disposto a investire in questo delirante pastrocchio cinefilo di 156 minuti (ripeto: 156 minuti) che unisce (si fa per dire) thriller e Divina Commedia, Dante, Martin Scorsese e Jason Momoa. Autentico delirio di artista indolente. La più clamorosa rottura di cogl***i dell'intera rassegna veneziana.
IL MOSTRO (di Stefano Sollima, Italia - SERIE) ★☆☆☆☆
Non avrei mai pensato che un regista solido e collaudato come Sollima potesse cadere così in basso, anche in una serie che, in teoria, poteva essere pane per i suoi denti... e invece questi primi quattro episodi de "Il Mostro" (quello di Firenze) sono una delusione tremenda. Non tanto per la qualità del prodotto (comunque pessima) quanto per il taglio sensazionalistico e moralmente irricevibile messo in scena: secondo la tesi surreale di Sollima (che in questa prima stagione si limita alla pista sarda) gli omicidi del serial killer sono femminicidi a tutti gli effetti, dovuti agli istinti repressi e alla mentalità patriarcale del carnefice. Poco importa se questa teoria non è mai stata suffragata da alcuna prova attendibile, e le vittime del Mostro alla conta dei fatti sono state più maschili che femminili... no, per Sollima l'importante è cavalcare l'onda del momento, morbosamente, in barba e senza rispetto per i 16 ragazzi uccisi (9 maschi) e per i loro familiari. Mi fermo qui, per non (s)cadere nel turpiloquio.
Ottima guida, come al solito. Ogni anno aspetto con ansia questo "riepilogo" per farmi un'idea sui titoli da vedere. Grazie mille.
RispondiEliminaUn abbraccio e buon weekend.
Mauro