martedì 28 ottobre 2025

A HOUSE OF DYNAMITE



titolo originale: A HOUSE OF DYNAMITE (USA, 2025)
regia: KATHRYN BIGELOW
sceneggiatura: NOAH OPPENHEIM
cast: IDRIS ELBA, REBECCA FERGUSON, GABRIEL BASSO, JARED HARRIS, TRACY LETTS, ANTHONY RAMOS, JASON CLARKE, GRETA LEE, MOSES INGRAM
durata: 112 minuti
giudizio: 



Un missile nucleare proveniente dall' Oceano Pacifico, lanciato non si sa da chi, sta per colpire la città di Chicago. Stima dei danni: dieci milioni di vittime. Il Presidente degli Stati Uniti e il suo entourage hanno 19 minuti di tempo per cercare di abbatterlo e, eventualmente, decidere se rispondere al fuoco...




Ci sono film e registi che purtroppo, e sottolineo purtroppo, molto spesso sono vittime involontarie di un assurdo pregiudizio politico nei loro confronti, in special modo se il film in questione batte bandiera a stelle e strisce. Figuriamoci poi se il film in questione è un film dichiaratamente politico, oltre che americano fino al midollo e per giunta prodotto da Netflix: qualcuno a Venezia, dove è stato presentato in concorso (e ovviamente ignorato) si è perfino rifiutato di vederlo... vabbè, tanto peggio per loro. 

Kathryn Bigelow torna dietro la macchina da presa a ben otto anni di distanza dal suo film precedente, Detroit (e già questo la dice lunga sulle difficoltà produttive, anche per la prima regista al mondo a vincere l'Oscar) e lo fa come solo lei sa fare, ossia scavando dentro l'ansia collettiva e mostrando l'Apocalisse non come evento spettacolare ma come possibilità concreta, perfino ovvia (il flano del film è infatti "not if, but when"). A house of dynamite è un thriller politico teso come un cavo dell'alta tensione, un racconto che rinuncia alla retorica del "nemico" a tutti i costi per concentrarsi sull'incertezza, sulla catena di decisioni che potrebbe (o non potrebbe) dare inizio alla fine del mondo.

La trama è elementare, scheletrica: un missile atomico non identificato sta per colpire gli Stati Uniti con conseguenze disastrose: le autorità militari e civili hanno 19 minuti di tempo per capire se si tratta di un errore, di un test o di un attacco e rispondere di conseguenza, con il rischio, concreto, di scatenare la Terza Guerra Mondiale. Da qui la Bigelow costruisce un film che si muove come una spirale: la stessa sequenza temporale viene rivissuta da più punti di vista (la Casa Bianca, il Pentagono, la Protezione Civile) mentre la tensione cresce non per ciò che vediamo, ma per ciò che potrebbe accadere da un  momento all'altro...

La messa in scena non è originalissima (in fin dei conti è la stessa di Rapina a mano armata di Kubrick) ma ciò che colpisce è il risultato: un'esperienza snervante, quasi fisica. Non ci sono eroi, non esiste un colpevole chiaro, e soprattutto non c'è catarsi. La regista californiana ci porta dentro le stanze dei bottoni, quelle del Potere, tra telefoni che squillano, codici da autenticare, silenzi che pesano come bombe. Il film vive di dettagli (un'esitazione, uno sguardo, un monitor che lampeggia) e in questo trova la sua forza: nella capacità di rendere la paura tangibile, ansiogena, collettiva. Quasi un trattato sulla disarmante vulnerabilità dei nostri sistemi di sicurezza, in un mondo che ci fanno credere ipercontrollato. 

Anche solo dal punto di vista tecnico, A house of dynamite è impeccabile, granitico. La fotografia di Barry Ackroyd, che aveva già collaborato con la Bigelow in The hurt locker, restituisce una luce cruda e metallica, da reportage di guerra, mentre la colonna sonora di Volker Bertelmann lavora per sottrazione, insinuandosi più che imporsi. Il montaggio alterna ritmi sincopati a improvvisi momenti di immobilità, ricordandoci che anche l'attesa è un atto di violenza. 

Se c'è un difetto in A house of dynamite, forse è proprio nella sua granitica coerenza. L'approccio rigoroso e impersonale (che, checchè ne dicano i detrattori, è da sempre il marchio della regista) lascia poco spazio all'emozione e all'empatia. Alcuni spettatori potrebbero sentirsi distanti, quasi respinti da una narrazione che non concede conforto nè fornisce risposte. Ma anche questa è una scommessa della Bigelow: costringerci a rimanere nel dubbio, a misurare il peso di un errore umano in un sistema complesso e inaspettatamente fragile che non concede esitazioni.

A house of dynamite
non è solo un film sulla minaccia nucleare (i paragoni si sprecano, da A prova di errore fino a Il Dottor Stranamore, giusto per tornare a Kubrick), ma anche un film sulla responsabilità, sull'impossibilità di controllare davvero ciò che abbiamo scelleratamente costruito in decenni di pace apparente.

E' cinema politico nell'accezione più alta: non racconta il potere ma lo osserva mentre vacilla. In tempi in cui la realtà sembra già abbastanza esplosiva, la Bigelow ci consegna una pellicola che non esplode mai ma vibra in continuazione, come un ordigno armato. E nel finale, quando scorrono i titoli di coda, resta solo il silenzio: assordante soprattutto quello del Presidente, l'uomo più potente del mondo che deve prendere una decisione che potrebbe distruggere il mondo stesso (e qui tutti, ammettiamolo, ce lo siamo chiesti: e se al posto di Idris Elba, dilaniato dai dubbi e dalla propria coscienza, ci fosse uno come Donald Trump?). Anche se poi, alla fine, l'unica sensazione che ci resta davvero è che la "casa di dinamite" siamo proprio noi, che ce la siamo costruita addosso.

1 commento:

  1. Rifiutarsi di vederlo solo perché è un film americano, per giunta di Netflix, sarebbe un vero peccato. Anche perché per fortuna evita, pure con il suo discusso finale, di essere la solita americanata :)

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