martedì 30 settembre 2025

UNA BATTAGLIA DOPO L'ALTRA



titolo originale: ONE BATTLE AFTER ANOTHER (USA, 2025)
regia: PAUL THOMAS ANDERSON
sceneggiatura: PAUL THOMAS ANDERSON
cast: LEONARDO DiCAPRIO, CHASE INFINITI, SEAN PENN, BENICIO DEL TORO, TEYANA TAYLOR, REGINA HALL, ALANA HAIM
durata: 162 minuti
giudizio: 


L'ex rivoluzionario Bob Ferguson vive la sua quotidianità ormai sciatta insieme alla figlia meticcia Willa, ora sedicenne, dopo che la compagna Perfidia lo ha abbandonato per proseguire (forse) la lotta armata. Ma quando il suo acerrimo nemico, il malvagio colonnello Steven J. Lockjaw, nel frattempo diventato adepto di una setta suprematista bianca, si mette sulle tracce di Willa per ucciderla, a Bob non resta che radunare nuovamente il suo gruppo di vecchi rivoluzionari per dargli battaglia...   



Ho sempre detto, e lo ribadisco, che i film non cambiano la vita e non smuovono le coscienze (purtroppo), quindi se c'è un termine che odio quando si recensisce un film è "necessario". Ma necessario non vuol dire per forza di cose "inutile": un film, come un libro, un dipinto o una canzone, può comunque aiutarti a capire meglio la storia, a spiegarti come va il mondo. E Paul Thomas Anderson è uno di quei registi che finora ci avevano raccontato la storia di UN pezzo di mondo, il SUO pezzo di mondo, ovvero l'America, sempre prendendola per la tangente e attraverso figure particolari dentro un contesto generale: era stato così con Boogie Nights, con Il Petroliere, con The Master, con il delizioso Licorice Pizza. Ma con quest'ultimo film, Una battaglia dopo l'altra, è come se Anderson avesse sentito l'obbligo di schierarsi, di scendere in campo in prima persona, per firmare quello che è a tutti gli effetti un clamoroso film politico. E dove clamoroso fa rima con capolavoro.

Liberamente tratto da un romanzo di Thomas Pynchon (lo stesso di Vizio di Forma), Vineland (1990), Una battaglia dopo l'altra è, senza mezzi termini, un durissimo atto d'accusa contro l'America di Trump e contro tutto quello che il trumpismo si è portato dietro, amplificato, normalizzato, lasciato in eredità. Non è un film "su Trump" in senso stretto ma qualcosa di ben più profondo: Anderson fotografa un paese lacerato e irrecuperabile, dove il linguaggio della politica ha perso significato e quello della forza è diventato prassi. In questa America militarizzata, sorvegliata, xenofoba e chiusa in se stessa si muove Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio), ex attivista radicale degli anni '90, oggi disilluso e in fuga insieme alla figlia Willa (la giovane, sorprendente Chase Infiniti). Il loro viaggio attraverso un'America spettrale, fatta di strade deserte, sette razziste e militari sadici (incarnati nella fattispecie da un cattivissimo Sean Penn), è chiaramente un attraversamento del cuore malato di una nazione che ha dimenticato come si vive in comune.

Il punto non è solo la distopia che Anderson mette in scena con crudele precisione, ma il fatto che nulla di ciò che si vede nel film appare esagerato, anzi. Il terrore sta proprio nella familiarità: le milizie armate non sembrano fantasie da cinema ma proiezioni dirette di quello che abbiamo visto a Capitol Hill. Gli slogan risuonano come echi di populismo reale, documentato, non ancora spento. In tutto questo Anderson non si nasconde: il film è schierato, eccome. Non sul piano elettorale ma su quello morale e culturale, umano. E' un cinema che prende posizione e che non teme di essere divisivo, pur mantenendo l'autorialità del suo regista: è sì politico, ma non è propaganda. Il rapporto tra Bob e Willa diventa la chiave per parlare anche di un'utopia infranta, di un cambiamento mai avvenuto in un mondo che è tornato a parlare il linguaggio della paura.

Che fine ha fatto la rivoluzione promessa, ambita, sognata e mai realizzata? Anderson non la racconta come un evento represso nel sangue, ma come un qualcosa che si è lentamente dissolto, annacquato, trasformato in memoria sterile. La rivoluzione, nel film, non è tanto una battaglia perduta quanto un progetto mai veramente iniziato, tradito dal tempo e dalla stanchezza. Bob lo sa, e se lo porta addosso nella sua vita debosciata e nella sua misera abitazione al confine col Messico, pronto a scappare invece di combattere ancora. DiCaprio è ancora una volta straordinario nel dare corpo a un uomo che porta il peso di un fallimento personale ma anche storico. Chase Infiniti incarna invece una generazione che quella revoluciòn non l'ha mai vista, non l'ha mai ritenuta possibile, ma ne paga ugualmente le conseguenze.

Ma la forza del film - che ve lo dico a fare - sta anche nella messinscena: fotografia cupa, colonna sonora tesa e minimalista, montaggio che alterna l'azione alla riflessione con un equilibrio raro. Regia da urlo: l'inseguimento finale sulla strada deserta e assolata è già una delle scene cult dell'anno. Ma soprattutto colpisce la coerenza con cui Anderson porta avanti il suo discorso: ogni scena, ogni scelta visiva, ogni battuta contribuisce a costruire l'immagine di un'America che ha smesso di riconoscersi e non vuole più farlo. In questo senso Una battaglia dopo l'altra è anche un film sul presente: un presente che ha normalizzato l'odio, istituzionalizzato la violenza, dissolto la responsabilità collettiva. E non è un caso che questo film arrivi proprio ora, nel momento in cui l'America si interroga (o finge di interrogarsi) su quanto ancora sia credibile la democrazia che dice di voler difendere.

Anderson ci costringe a guardarci allo specchio: non offre risposte, non propone uscite di sicurezza. Ci mostra solo una strada piena di macerie e cactus e ci chiede, senza retorica, se siamo ancora in grado di percorrerla insieme. Per questo Una battaglia dopo l'altra è un film da vedere. Forse è il film più importante dell'anno, forse - lo azzardiamo? - di questo primo scorcio di millennio. Forse, tra vent'anni, non sarà ricordato solo come un grande film, ma come il documento morale di un'epoca in cui troppo pochi hanno avuto il coraggio di dire le cose come stavano.

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...