titolo originale: THE SMASHING MACHINE (USA, 2025)
regia: BENNY SAFDIE
sceneggiatura: BENNY SAFDIE
cast: DWAYNE JOHNSON, EMILY BLUNT, RYAN BADER, OLEKSANDR USIK, SATOSHI ISHII
durata: 123 minuti
giudizio: ★★★☆☆
I quattro anni cruciali (dal 1997 al 2000) nella vita di Mark Kerr, autentica leggenda della MMA che entra in crisi dopo la prima sconfitta della sua carriera, abbandonandosi agli oppiacei e alla depressione. L'amore di sua moglie Dawn e i consigli dell'amico-rivale Mark Coleman lo aiuteranno a riprendersi e a tornare sul ring...
Safdie non fa alcuna concessione alla retorica hollywoodiana: costruisce un film teso, crudo, senza ralenti ruffiani e sequenze patinate e studiate ad arte. La fotografia è volutamente "sporca", un po' per riportarci alla fine degli anni '90 (quelli in cui è ambientata la storia) ma soprattutto per restituire sano realismo alla parabola discendente di un uomo enorme e fragile, che non riesce a trovare pace fuori dal ring. Non c'è alcuna edulcorazione, nessuna finzione in The Smashing Machine: lo stesso Mark Kerr, quello vero, si è commosso rivedendosi sullo schermo, nel corpo e nell'anima di un sorprendente e capelluto Dwayne Johnson, che interpreta un Kerr stanco, incrinato, vulnerabile in maniera quasi imbarazzante.
Non mi stupirei affatto se ai prossimi Oscar Johnson dovesse finire in nomination: quella in The Smashing Machine è la prova più sincera che il mitico "The Rock" abbia mai portato al cinema finora, e Safdie gli costruisce intorno una gabbia visiva che ci fa sudare più delle prese a terra: ring, barriere, corridoi claustrofobici, tutto sembra dirci che la salvezza per Kerr è sempre un passo più in là, un gradino più sopra. E soprattutto che non ci si salva da soli: quando la mente è malata non è vergogna cercare conforto intorno a sè, e Kerr ha il coraggio di farlo prima con l'amata moglie Dawn (una brava e sempre sottovalutata Emily Blunt, che recita con un impeccabile accento "sudista", che purtroppo si perderà nella versione italiana) e poi con l'amico-rivale Mark Coleman (Ryan Bader), che si spenderà per convincerlo a continuare a combattere. In tutti i sensi.
Non è un capolavoro The Smashing Machine, sia chiaro. E' un film solido, certo non originale nella struttura, che ogni tanto inciampa nella sua stessa ambizione, specialmente quando il regista smette di seguire il Kerr-uomo e si mette a inseguire l'idea della dipendenza da oppiacei come anatomia, come principio medico, dilungandosi in inutili dissertazioni: il ritmo si slabbra, la tensione si smorza e ci ritroviamo in dei momenti in cui lo spettatore s'interroga su dove la trama vada a parare. A livello estetico però Safdie non sbaglia un colpo: la camera riprende tutto a bordo ring, s'infratta negli spogliatoi, fruga nelle crepe, scruta i silenzi. Il montaggio non indugia mai in scene madri ma preferisce i dettagli sporchi, i gesti che fanno male senza fare rumore. Il film ha vinto a Venezia il Leone d'argento per la miglior regìa, e a molti è parso un riconoscimento un po' esagerato: forse è vero, ma non è affatto uno scandalo considerata l'accuratezza di un film che vive di vibrazioni più che di picchi narrativi, e questa scelta lo rende affascinante e coraggioso allo stesso tempo.
E' un film sincero, The Smashing Machine: è quel tipo di film che il sottoscritto difenderà sempre, perchè seppur imperfetto, indocile, pieno di spigoli, è un film che emoziona e fa riflettere, che non ti prende per mano e non ti offre consolazione, ma che ti chiede invece di restare lì, dentro la testa e il corpo di un uomo che prova a non rompersi del tutto. Non sarà il miglior Safdie possibile, ma contiene alcuni dei suoi momenti più veri, oltre a una performance di Johnson che, per quanto possa essere abusata questa locuzione, da sola vale il prezzo del biglietto. E forse anche un paio di round extra.


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